Lo scandalo di Eugene-Louis Doyen per il suo atlante di anatomia topografica

 

 

GIOVANNI ROSSI & GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 07 maggio 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE E RECENSIONE]

 

Introduzione. A più di un secolo di distanza, un caso che destò grande scalpore presso la comunità medica internazionale e che è entrato di diritto nella storia delle neuroscienze è stato riscoperto, analizzato e discusso da Douglas J. Lanska in un articolo di prossima pubblicazione sul Journal of the History of the Neurosciences, che affronta la questione nodale all’origine dello scandalo: bioetica e valore scientifico dell’Atlante di Anatomia Topografica (1911) di Eugene-Louis Doyen.

(Rodriguez-Ortiz A., et al. Eugene-Louis Doyen and his Atlas d’Anatomie Topographique (1911): Sensationalism and gruesome theater. Journal of the History of the Neurosciences – Epub ahead of print doi: 10.1080/0964704X.2022.2050643, 2022).

La provenienza dell’autore è la seguente: Moscow State Medical University, Moscow (Russia); University of Wisconsin School of Medicine and Public Health, Madison, Wisconsin (USA).

Per comprendere le ragioni dello “scandalo” suscitato presso la comunità medica è necessario conoscere le radici storiche di una concezione della persona umana sostanzialmente conservata dall’antichità.

Fin dagli albori conosciuti dello studio della morfologia biologica umana per fini medici si rintracciano documenti che testimoniano il profondo rispetto del medico dissettore per il corpo sottoposto a studio. Questa prudenza, coerente con tutta l’etica della medicina ippocratica, rendeva poco frequenti le indagini anatomiche su esseri umani, fatta eccezione per l’epoca di Erofilo ed Erasistrato che avevano condotto innumerevoli dissezioni sui corpi di condannati a morte, costituiti prevalentemente da nemici sconfitti in guerra.

Ma non è un caso che la scuola greca di Erofilo ed Erasistrato aveva sede e luogo in Egitto, ad Alessandria, e non ad Atene. Il rispetto dei Greci per il soma – termine col quale si indicava il corpo del morto – fu assunto dai Romani come parte del rispetto della persona umana in vita e in morte, che distingueva i popoli civili da quelli barbari. Nei secoli cristiani l’Europa aveva fatto proprio il rispetto del corpo di antica matrice ebraica, secondo una cultura che nei secoli si era estesa a tutto il cosiddetto “mondo occidentale”. Per le membra del vivo, il primo custode dell’integrità è il soggetto stesso, per quelle del morto era l’intera società a farsi garante dell’inviolabilità, con la sola eccezione del caso di utilità per la conoscenza medica, costituito dall’autopsia.

Nel periodo storico che va dal Medioevo all’età contemporanea, la facoltà di studiare l’anatomia mediante la dissezione di cadaveri ha avuto due grandi mediatrici culturali nella Chiesa e nell’Arte: la prima è stata prevalente nei primi secoli, quando tutti o quasi tutti gli anatomisti medici erano allo stesso tempo religiosi, ossia frati, sacerdoti o alti prelati; la seconda ha prevalso negli ultimi secoli, quando l’insegnamento dell’anatomia artistica si è diffuso in tutto il mondo. Vale la pena soffermare l’attenzione su queste due mediazioni.

 

1. La Chiesa e lo studio dell’anatomia mediante dissezione del cadavere. Anche se tradizionalmente si attribuiva a frate Mondino de’ Liuzzi la prima autopsia di epoca cristiana, gli storici hanno scoperto che già da molto tempo i frati medici, ossia ministri di culto che curavano l’anima e il corpo, avevano praticato autopsie. Il vero problema culturale presente per secoli in Europa non consiste nel divieto della pratica autoptica, ma nello scontro tra due sensibilità diverse nel rapporto con i defunti, quella italica e quella germanica. La prima, alla quale si rifà la maggior parte dei francesi e degli altri popoli latini, interpreta il rispetto cristiano del feretro, che rimane corpo inviolabile di un essere fatto a immagine e somiglianza di Dio anche dopo la morte; la seconda eredita la concezione barbara della perdita di ogni qualità umana del corpo del morto, che può essere distrutto o sezionato, imbalsamato e usato in negromanzia per rituali magici e divinatori.

La Chiesa affronta questo problema con tutto il supporto delle gerarchie francesi. Un brano tratto da un saggio di Monica Lanfredini aiuta a entrare nella realtà dell’epoca, non filtrata dalla lente deformante della storiografia ottocentesca:

“Di fatto, dunque, non vi è stata storicamente una richiesta dei medici di compiere autopsie ed un diniego da parte delle autorità ecclesiastiche. Sembra si sia verificata piuttosto un’evoluzione progressiva da una pratica sporadica, posta in essere per motivi particolari, ad una forma regolamentata per lo studio dell’anatomia e per scopi che, con un linguaggio moderno, possiamo definire medico-legali. Prima di questa fase, gli esami necroscopici non erano stati ristretti ai soli medici formati presso gli Studi, ossia le università dell’epoca[1], ma erano praticati o assistiti e osservati proprio da religiosi. Risale a tredici anni prima del Detestande feritatis di Bonifacio VIII[2] la cronaca di uno studio su cadavere realizzato e descritto da Fra’ Salimbene da Parma per tentare una diagnosi post mortem; tale esame è passato alla storia come “la prima autopsia”.

Leggiamo in Bober e McKinney: “Nel nel mese di febbraio [1286] ebbe inizio in tutta la regione una misteriosa morìa che colpiva parimenti uomini e animali. Dall’esame di alcune galline morte un medico scoprì che tutte avevano delle piccole vesciche sul cuore; aprì il cadavere di un uomo e anche sul cuore di questo trovò vesciche del tutto simili alle precedenti. L’episodio è registrato nella Chronica che Fra Salimbene da Parma andò annotando nel corso della sua vita […]. Così scrive il frate parmense: «Et quidam medicus physicus fecit aliquos aperiri et invenit apostema super cor gallinarum… fecit similiter aperiri mortuum homine quedam, et super cor hominis idem invenit»[3]. La citazione viene di solito riportata come il primo riferimento all’uso della necroscopia di cui si abbia testimonianza”[4].

Riprendendo questo studio, in “Specchio della psiche e della civiltà”, si è osservato:

Come gli Ebrei, i cristiani concepiscono il rispetto della persona anche dopo la morte e, credendo nella resurrezione della carne, combattono l’uso dei popoli barbari di bruciare i cadaveri[5] ma, a differenza di quanto si legge in alcune trattazioni storiche non redatte da autentici studiosi della storia medievale e moderna, non vi è una formale legislazione della Chiesa contro l’autopsia; si tratta soprattutto di un’obiezione di coscienza e di sostanza, non di forma. Tertulliano e Agostino condannano la violazione del corpo, in quanto “a immagine e somiglianza di Dio”, anche per la diffusa reificazione pagana delle spoglie mortali. In precedenza ho detto dell’autopsia condotta da Fra Salimbene da Parma nel 1286, e di Mondino de’ Liuzzi[6], ho poi ricordato che nel 1299 Papa Bonifacio VIII interviene contro un raccapricciante costume affermatosi in Terra Santa durante le crociate: per spedire in patria, alla famiglia, le ossa dei crociati morti, ne bollivano i cadaveri per separare lo scheletro dai tessuti molli. La proibizione si riferiva a questa macabra pratica, non certo al fatto che medici, spesso appartenenti a ordini religiosi, potessero indagare il corpo per studiarlo a vantaggio di altri pazienti o, anche, per scoprire i rapporti tra carne e spirito[7].

Dopo il Rinascimento e fino al XIX secolo la Chiesa rimane garante dell’etica medica in questo campo ma, soprattutto, contribuisce a creare una mentalità che legava la rispettabilità della professione medica alla fedeltà ai principi dell’umanesimo cristiano.

 

2. L’anatomia passa dal macabro grigiore dei tavoli settori ai colori delle tavole artistiche. Paolo Mascagni si laureò in medicina e in filosofia nel 1778 e fu il primo professore di Anatomia Pittorica, dopo la reintroduzione negli statuti della disciplina con la riforma del 1807, e pur essendo Lettore di Anatomia, Fisiologia e Chimica presso l’Arcispedale di Santa Maria Nuova in Firenze, dove Leonardo da Vinci eseguì i primi disegni anatomici ed erano state riunite le tre cattedre più importanti dell’Università di Firenze, insegnò per dieci anni all’Accademia delle Belle Arti della capitale artistica d’Europa, che aveva eletto a nume tutelare Michelangelo Buonarroti.

Nel Proemio dell’Anatomia Universa[8], Paolo Mascagni accosta l’autore della Cappella Sistina ai più celebri anatomisti e lo considera “astro di fulgidissima luce che splende come la luna tra le minori stelle”[9] e, sebbene fosse stato criticato da Leonardo proprio per la concessione all’accentuazione stilistica a danno della fedeltà anatomica, cita Michelangelo a proposito della necessità per i pittori di fare molte dissezioni anatomiche. La sua Grande anatomia del corpo umano richiese oltre trent’anni di lavoro ma costituì la perfetta realizzazione di un programma: accanto all’anatomia demolitrice che attraverso la dissezione scompone e rende irriconoscibili le fattezze umane per acquisire conoscenza analitica del particolare, esiste un’altra anatomia che deve ricostruire ciò che è stato scomposto e separato, “ricomponendone in maniera ideale l’integrità, e rendendola per questo più vera e duratura: si esercita sul cadavere ma tiene di mira il vivente”[10].

È un evidente lavoro di sublimazione artistica di una scienza della morte per la vita, in cui Mascagni ha per principale collaboratore Antonio Serantoni, valente nella dissezione quanto nell’arte figurativa: “Appare quindi particolarmente interessante la testimonianza che il Serantoni, sotto la guida diretta del Mascagni, avesse eseguito due statue anatomiche in cera, perfettamente e totalmente decomponibili (e quindi ricomponibili), nelle quali, come si è detto, si realizzava anche attraverso la scelta dei “modelli” giovani e belli, la mediazione tra corpo anatomizzato e corpo vivo ed integro, nonché il punto di unione tra scienza e arte”[11].

Il colore costituisce un aspetto particolarmente rilevante delle tavole del Mascagni, sia perché la scelta di rappresentare in rosso le arterie, in blu le vene e con altre tinte specifiche ciascun viscere e formazione anatomica costituirà prototipo e modello per tutta l’illustrazione medico-scientifica seguente, sia, soprattutto, perché la coloritura è effettuata a mano, in quanto nessun procedimento di stampa si era rivelato idoneo a soddisfare le esigenze cromatiche dell’artista.

Questa straordinaria opera[12], che richiese altri otto anni di lavoro dopo la morte di Paolo Mascagni per la pubblicazione postuma, è un inno alla vita e al suo Creatore, come lo erano state le opere di Leonardo, Michelangelo, Vesalio e di alcuni altri grandi illustratori di anatomia umana. Anche grazie agli stretti rapporti accademici tra Firenze e Parigi risalenti al periodo napoleonico, le tavole anatomiche di Mascagni costituiscono lo standard dell’iconografia anatomica nella formazione dei medici francesi, fino all’epoca delle grandi opere di Jean Leo Testut, con il Testut-Jacob per l’anatomia topografica e poi il Testut-Latarjet di anatomia umana normale.

 

3. Il corpo nel Medioevo francese alle origini della sensibilità dei compatrioti di Doyen. Le analisi di Michel Rouche sul corpo nella cultura, nell’Alto Medioevo Occidentale e particolarmente in terra di Francia, possono aiutare a comprendere le radici del pensiero e della sensibilità di una parte significativa dei compatrioti di Eugene-Louis Doyen.

Storicamente in terra di Gallia era emersa una sensibilità a protezione del corpo che aveva condannato delle pratiche in uso in tutti i territori dell’Impero Romano. Ad esempio, né la legge romana né quella burugunda consideravano la castrazione un delitto, mentre Carlomagno aggiunge uno speciale articolo al codice penale su questa barbara pratica, raddoppia la pena pecuniaria per i rei da 100 a 200 soldi e, nel caso la mutilazione del corpo riguardi un antrustione, ovvero un membro del seguito regale verso cui il monarca ha obblighi di protezione, stabilisce un’ammenda di 600 soldi; inoltre, dispone un compenso di 9 soldi per il medico che avrebbe curato la vittima[13]. Lo stupro, non sanzionato in precedenza e in quegli anni dalla legge germanica[14], è punito dai Franchi con tre anni di reclusione[15]. Dopo la diffusione delle cronache di Gregorio di Tours sul sadismo dei boia e della folla, nasce una nuova sensibilità che condanna ogni tortura e pratica che infligge danni al corpo e sofferenze fisiche, come l’ordalia sui carboni ardenti[16].

È proprio in terra di Francia che hanno luogo alcuni cambiamenti culturali che traducono nel rispetto del corpo, lontano dalla strumentalità erotica, l’anagogia cristiana delle membra di ciascuno quale simulacro di quelle dell’Incarnato nella prospettiva di ricongiungere la propria materia a quella di Dio nella resurrezione della carne. Fino al VI secolo, il crocefisso era rappresentato completamente nudo, come volevano le cronache delle crocefissioni romane, poi un sacerdote di Narbonne ebbe la visione di Cristo che gli chiedeva di ricoprirlo. La Chiesa accettò di buon grado il suggerimento francese di chiedere agli artisti di rappresentare un drappo a protezione delle parti intime del Crocifisso, per evitare che nelle provincie più remote le donne potessero adorarlo secondo tradizioni di sostrato come un dio della fecondità, a somiglianza di Priapo, o come il Freyr dei Vichinghi.

Il battesimo, fino all’VIII secolo, avveniva la notte del sabato santo per immersione nella piscina ottagonale che sorgeva accanto ad ogni cattedrale, dove giungevano completamente nudi uomini e donne per ricevere il sacramento. Esisteva in teoria una sacralità del nudo cristiano che esprimeva la purezza incontaminata del corpo a somiglianza di quella dell’anima, ma in Francia si notava che la nudità durante tutta la funzione di tutti gli uomini e le donne da battezzare in quella diocesi per quell’anno poteva suscitare desideri e tentazioni, e dunque in periodo carolingio si abolì il battesimo per immersione, che sopravvisse altrove. In Italia si conserva per secoli l’immersione nella vasca battesimale, ed è a tutti noto l’episodio di Dante che nel battistero di San Giovanni salva dall’annegamento un battezzando che non sapeva nuotare, ma ormai da tempo, come in Francia, per ricevere il sacramento si indossa la simbolica veste candida battesimale. Proteggendo e rispettando il corpo, insegnano i prelati francesi, si rispetta l’anima, e dunque l’insieme della creatura amata da Dio e che tutti siamo chiamati ad amare come prossimo.

 

4. Eugene-Louis Doyen, i suoi amici e il suo tempo a Parigi tra IX e XX secolo. Per comprendere la natura profonda delle questioni poste in gioco dall’atlante, non possiamo esimerci, a nostro avviso, dal fare la conoscenza del suo autore e particolarmente degli aspetti della sua biografia e delle sue idee che lo avevano posto al centro dell’attenzione sociale, culturale e in un certo senso politica del suo tempo, facendone nella Parigi della Belle Époque un paladino di una di due fazioni in lotta, quella che si proclamava sostenitrice dell’innovazione, del progresso, del cambiamento e si opponeva a quella della conservazione, della pigra inerzia e dell’avversione al nuovo. In realtà, nei salotti, nei teatri, nelle accademie, nelle istituzioni e nelle piazze si combattevano battaglie diverse e, se gli artisti propugnavano l’abbandono dei canoni della tradizione a favore dell’incompiuto, dell’effetto che attrae l’attenzione, del nuovo che stupisce, nel mondo della cultura e delle coscienze era in atto uno scontro di valori ben più profondo, che vedeva nell’ansia distruttrice del passato per l’affermazione personale nel presente, la contrapposizione dei dubbi etici degli atei e della morale “fai da te” degli agnostici alle certezze dell’antropologia cristiana.

Quella di Doyen è la Parigi in cui uno studente di medicina dallo straordinario talento pittorico, Henri de Touluse-Lautrec, che aveva lasciato gli studi per una vita da disegnatore dal vero di danzatrici, cantanti, attrici e entraineuse dei caffè-concerto, realizza quei manifesti del Moulin Rouge dove le ballerine mostravano la biancheria intima, danzando a ritmo serrato sulle note squillanti e trionfali della danza dei diavoli davanti alla porta degli inferi dell’Orfeo all’Inferno, quel ballo divenuto celebre col nome che si diede al brano di Offenbach: “Can Can”.

Un amico di Doyen, che condivideva la sua passione per la fotografia, per il cinema e per gli apparecchi elettrici creati in America dal genio di Thomas Alva Edison, era uno strenuo sostenitore dell’innovazione nell’arte: il valore della scienza e della tecnologia doveva a suo avviso superare quello estetico e affermarsi nell’opera come senso dell’evoluzione dei tempi. Così, l’anatomia artistica doveva cedere il passo a quella tecnologica. È possibile che Doyen abbia subito l’influenza della forte personalità dell’amico, un chimico avviato a quegli studi da uno zio che voleva lasciargli la sua azienda di produzione di vernici e acido acetico, ma poi diventato ingegnere per il desiderio di esibirsi nell’arte di stupire costruendo. All’Esposizione Universale di Parigi del 1889, quando fu inaugurata e mostrata una sua opera, il nome dell’amico di Doyen divenne famoso in tutto il mondo: Alexandre Gustave Eiffel. La sua torre gigantesca e vuota, ardita e inutile, come l’avevano considerata molti accademici, aspramente criticata e astiosamente disprezzata da Émile Zola e Guy de Maupassant, era diventata il nuovo simbolo di Parigi, dell’innovazione e della libertà creativa, emblema della libertà tout court.

Doyen apparteneva a quella nuova élite che sembrava aver sostituito gli ideali etico-estetici con la smania di esibizione storica, abbandonando i fini culturali e spirituali delle professioni per la gloria e la fama personale, da ottenere stabilendo un primato e suscitando stupore e sorpresa.

Qualche anno prima, Doyen aveva condiviso l’idea di Eiffel, divenuta un progetto realizzato dallo scultore Frederic Auguste Bartholdi[17], di manifestare solidarietà al popolo americano degli Stati Uniti nel centenario della dichiarazione di indipendenza inviando un dono simbolico: la Statua della Libertà.

La personificazione femminile della ragione che illumina l’indipendenza dei popoli che ancora troneggia a New York sulla baia di Manhattan[18], era stata concepita con una struttura reticolare interna in acciaio la cui progettazione era stata affidata ad Alexandre Gustave Eiffel. L’intento di stupire e stabilire un primato era manifesto: si voleva realizzare la statua più grande del mondo. Infatti, l’opera di maggiori dimensioni allora nota era il San Carlo Borromeo in rame e granito di Giovanni Battista Crespi[19], che misurava 23 m di altezza, e allora si decise che la statua da donare agli Americani sarebbe stata alta 46 m, giusto il doppio. Con il basamento, ossia l’enorme piedistallo progettato da Eiffel, l’altezza del monumento è di 93 m ed è visibile a oltre 40 km di distanza. La figura fu scomposta in parti da assemblare sul posto: per la precisione 1883 ripartite in altrettante casse, poi caricate su una piccola nave, costretta a fare più viaggi per consegnare tutti i pezzi dell’enorme puzzle tridimensionale.

È opportuno ambientare in questa realtà storica e nelle circostanze biografiche di Doyen il lavoro per l’atlante, perché i suoi intransigenti detrattori lessero alla luce della sua appartenenza a questo indesiderato movimento di idee i primati tecnici che aveva stabilito: un sensazionalismo estraneo alle esigenze della conoscenza scientifica e non consono al sacrale rigore ippocratico della professione medica, oltre che in contrasto col rispetto cristiano del corpo destinato alla resurrezione della carne.

Eugene-Louis Doyen (1859-1916), figlio del sindaco di Reims, studiò medicina e chirurgia a Reims e a Parigi[20], dove fondò un istituto medico privato intitolato a sé stesso, presso il quale riceveva numerosissimi pazienti, in massima parte potenti e facoltosi in grado di sostenere economicamente i suoi studi, prevalentemente volti all’innovazione delle tecniche chirurgiche. Ideò nuove procedure operatorie e nuovi strumenti chirurgici, alcuni dei quali ancora in uso e denominati col suo eponimo. Fu tra i primi in Europa a impiegare l’elettrochirurgia e l’elettrocoagulazione, particolarmente in capo oncologico; operava la malattia mortale il cui nome era bandito dalla buona società e pronunciato a bassa voce dai medici che rivelavano ai parenti del paziente la sua condanna a morte: Doyen distruggeva le masse cancerose mediante elettrocoagulazione. Per un periodo si dedicò allo studio della microbiologia e compilò anche un atlante di questa disciplina; in quegli anni preparò un estratto di lievito ad azione antisettica, che poi commercializzò col nome di mycolisine, ma formulò l’erronea teoria dell’origine infettiva del cancro.

La fama internazionale gli venne per l’intervento di separazione di due gemelle siamesi di origine indiana, Radhika e Dudhika Nayak, nate nel 1888 congiunte all’altezza del processo xifoideo dello sterno e divenute presto celebri come le “Orissa Twins”, piccole stelle del Circo Barnum & Bailey, col quale si esibivano in tutta Europa e nel Nord America. Approdarono dodicenni al Moulin Rouge di Parigi col nome translitterato in “Radica e Doodica” sui manifesti, in cui apparivano graziosamente abbigliate come ballerine indiane, con una giacchina rossa condivisa, dagli orli bianchi aperta a mostrare la parte bassa del torace congiunta. Dudhika nel 1902 contrasse la tubercolosi, e allora Doyen si offrì di effettuare l’intervento chirurgico di separazione per evitare il contagio di Radhika.

Per essere certo di ottenere popolarità mondiale, l’autore dell’atlante di anatomia dispose un perfetto set cinematografico perché l’intervento fosse filmato e incaricò numerosi fotografi di riprendere istantanee prima, durante e dopo l’intervento, in modo da poter disporre di una copiosa documentazione per immagini dell’impresa. La notizia della separazione fu pubblicata sui giornali di tutto il mondo, anche perché le gemelle di provenienza asiatica frequentavano Europa e America, e le foto – oggi facilmente reperibili sul web – delle ragazzine prima congiunte, poi affiancate sul tavolo operatorio e infine in un letto a due piazze separate da una bambola, documentavano un evento eccezionale a lieto fine, con un intervento riuscito che sembrava meritare al chirurgo il premio di una buona reputazione internazionale[21].

In realtà si trattò di un atto operatorio quantomeno imprudente: Doyen non aveva considerato tutti i tessuti implicati nel tratto congiunto. Il 17 febbraio del 1902 il Topeka Daily Herald scrisse: “Una delle gemelle è morta”. Infatti, poco dopo la fotografia che le ritraeva a letto, Dudhika morì di peritonite. Radhika fu tenuta all’oscuro della morte della sorella, ma presto fu ricoverata in un sanatorio perché in realtà si era già contagiata prima dell’intervento; e di tubercolosi morì l’anno dopo, a 15 anni.

Il chirurgo innovatore fu un appassionato sperimentatore delle procedure fotografiche e fu tra i primi ad adottare filtri multipli per realizzare fotografie a colori. Aveva imparato molto dall’invenzione del cinematografo, sia tecnicamente sul rapporto tra la statica della riproduzione di immagini su lastre e la dinamica dello scorrimento su pellicola di fotogrammi in sequenza a una velocità tale da essere fuse dalla retina come movimento, sia come pratica lezione di scienza e vita sull’importanza della comunicazione internazionale: Thomas Alva Edison, tra le sue oltre cinquecento invenzioni brevettate, nel 1888 ideò il kinetoscopio[22], che si può considerare diretto precursore di un apparecchio che fungeva allo stesso tempo da macchina da presa e proiettore, denominato nel 1895 dai suoi inventori, i fratelli Louis e Auguste Lumière, cinematografo[23].

Doyen era affascinato dalla genesi del miracolo cinematografico, consistente nell’uso dell’intelligenza pratica nell’applicazione di principi scientifici per ideare soluzioni tecnologiche in serie capaci di portare a un’invenzione in grado di rivaleggiare con le fantasie più ardite. Il chirurgo sapeva che i due fratelli erano i figli di Antoine Lumière, un celebre fotografo proprietario di un’officina fotografica dove entrambi erano cresciuti lavorando col padre fin da piccini, poi Louis aveva studiato da fisico e Auguste aveva imparato a fare il direttore tecnico: insieme studiavano ogni giorno per migliorare e perfezionare processi e tecniche della fotografia. Louis mise a punto il procedimento della lastra secca, ritenuto un passo fondamentale per la realizzazione della pellicola fotografica, alla quale si dedicarono entrambi i fratelli dal 1892, quando il padre andò in pensione[24]. Creata la pellicola, inventarono e brevettarono il foro di trascinamento, ossia la doppia serie di fori in cui si inseriscono i dentelli dei rulli per tendere e far scorrere la pellicola nelle camere fotografiche e negli apparecchi di proiezione: Doyen era ammirato perché riteneva che all’atto pratico i fori non fossero meno importanti dei composti chimici per lo sviluppo, come la forma di una pinza, di un bisturi o di una spatola a volte potevano valere quanto e più di un farmaco per curare un paziente.

Non solo Doyen presentava film delle sue operazioni chirurgiche ad ogni lezione e conferenza, ma fece della fotografia e della cinematografia uno strumento di registrazione e documentazione per integrare la semeiotica d’ispezione a scopo diagnostico e, soprattutto, un sussidio ineguagliabile per la didattica delle procedure e delle tecniche operatorie. Era convinto che per eccellere nella sua professione fosse necessario unire allo studio del suo trattato in cinque volumi di chirurgia e tecniche operatorie la visione e la memorizzazione dei film degli interventi chirurgici.

Non è una mera curiosità che Doyen credeva nel valore e nelle possibilità della cinematografia molto più degli stessi fratelli Lumière che, dopo aver venduto qualche apparecchio cinematografo, abbandonarono il progetto, ritenendo che la gente si sarebbe stufata presto del movimento. Lo convinsero che il vero progresso consisteva nella realizzazione della fotografia a colori, così Doyen vi si dedicò, facendo esperimenti personali dei quali non abbiamo traccia documentale ma, con ogni probabilità, non troppo fortunati. Louis e Auguste invece riuscirono anche in questa impresa e, nel 1903, brevettarono il processo “Autochrome Lumière”[25].

 

5. L’Atlante di Anatomia Topografica (1911) di Eugene-Louis Doyen. Douglas J. Lanska ha un’idea precisa di Eugene-Louis Doyen: “…fu oggetto di controversia e scandalo nella sua carriera, un chirurgo innovatore di grandi competenze tecniche, le cui abilità insuperate furono oscurate da un comportamento narcisistico e frequentemente non etico”[26]. Ma noi cerchiamo di analizzare, dopo aver già esaminato gli aspetti che aiutano a comprendere la severità dei giudizi dei contemporanei, le caratteristiche dell’opera per formulare una nostra opinione a oltre un secolo di distanza, in una temperie culturale del tutto diversa.

Il primo aspetto, peculiare per quel tempo, della procedura consistente nella fissazione chimica di tutto il cadavere, come se fosse un campione istologico, prima di procedere al taglio, per avere una consistenza omogenea e preservare dall’alterazione le parti molli più delicate, ha un equivalente nelle procedure attuali. Ad esempio, per lo studio anatomico dell’encefalo umano attualmente si procede all’infusione in vena radiale di una soluzione fisiologica e poi del liquido fissativo contenente incidina, glicerolo e formaldeide al 10%[27]. Non si ha certezza sul processo di fissazione chimica dei cadaveri impiegato da Doyen, ma si desume dalle sezioni che la resa sia stata soddisfacente.

Il secondo aspetto della procedura costituisce forse l’elemento più contestato dai colleghi, in un’epoca in cui i virtuosi della dissezione ancora si esibivano nel teatro anatomico delle facoltà mediche mostrando abilità da prestigiatori o musicisti nell’uso delle dita e di divaricatori, pinze e bisturi di vario tipo, per isolare, senza danneggiare i tessuti circostanti, il condotto di una ghiandola, un tronco nervoso o un’arteria profonda, Doyen fa ricorso a una modalità inusitata che non ha nulla a che fare con la manualità chirurgica. Impiega una sega a nastro motorizzata e un tavolo scorrevole allestendo, in tal modo, un sistema che assomiglia a una gigantesca affettatrice[28].

A questo proposito, lasciamo per un momento il filo dell’esposizione di Douglas J. Lanska per inserire un nostro commento basato su accostamenti dell’epoca originati proprio dall’uso della motosega.

Un’ombra sulla reputazione di Doyen, dopo le prime proiezioni pubbliche del materiale filmato durante il lavoro sui cadaveri, venne dal fatto che gli spettatori accorsi alle proiezioni erano in parte spettatori del Théâtre du Grand Guignol e che il chirurgo non si era schierato contro le realistiche rappresentazioni dell’orrore macabro e sanguinario che avevano fatto degli spettacoli di quel teatro parigino un caso di risonanza internazionale.

Il Grand Guignol fu un’istituzione teatrale attiva tra il 1897 e il 1962, nota per una forma di spettacolo unica: ogni sera si rappresentavano quattro brevi storie, due cruentissime, macabre, terrifiche e suggestivamente realistiche, due di umorismo demenziale e surreale. L’alternanza tra orrendo e comico doveva, nell’intenzione degli ideatori, produrre un effetto “doccia scozzese”, ma la fama sinistra e allo stesso tempo di novità assoluta nello spettacolo, il Grand Guignol la doveva alle rappresentazioni raccapriccianti. Tra gli spettatori, spesso urlanti dall’inizio alla fine, vi erano in media due svenimenti per sera e numerose defezioni precipitose, non di rado per crisi di panico.

Al tempo di Doyen, la compagnia di quel teatro possedeva un complesso e stupefacente armamentario di trucchi, strumenti, mezzi e tecniche illusionistiche di tale efficacia da consentire agli autori presenti in sala di spaventare ulteriormente gli spettatori garantendo che tutto quello che stava accadendo era assolutamente vero. Gli ideatori del teatro dell’orrore avevano frequentato sale settorie, e si mormorava che impiegassero resti umani autentici, oltre a teschi e altre ossa che facilmente si procuravano nei cimiteri sconsacrati.

Noi non abbiamo trovato, nei testi consultati, conferme delle illazioni riportate dalla cronaca del tempo[29], secondo cui Doyen avrebbe fatto parte delle personalità vicine ai soci fondatori del teatro macabro ma, dopo essere risaliti all’origine del “Guignol”, questa possibilità ci è parsa tutt’altro che improbabile. Infatti, l’impresa fu fondata nel distretto parigino di Pigalle nel 1897 dal socio del Teatro Libero Oscar Méténier con intenti naturalistici, sia in senso scientifico sia letterario. Méténier, prima di diventare impresario e scrittore, era stato nella polizia e aveva avuto esperienza di crimini cruenti.

Ma, torniamo alla considerazione delle immagini e delle illustrazioni dell’Atlante. Se si giustificano numerose sezioni in sequenza secondo i tre piani di regioni complesse, come il mediastino, la cavità addominale, il collo e tutti i volumi distrettuali in cui un chirurgo deve conoscere bene i rapporti tra visceri cavi, organi parenchimatosi, vasi, nervi e linfatici, così come la disposizione di capsule, fasce e membrane, quali le pleure o gli avvolgimenti complessi del peritoneo, non trova alcuna giustificazione conoscitiva – e non ha alcun precedente anatomico – tagliare le dita della mano a pezzetti secondo sezioni trasversali all’asse maggiore del braccio. Perché quei tagli orizzontali ravvicinati non rivelano alcun elemento morfologico relativo al rapporto di muscoli e tendini con le ossa delle falangi e i tegumenti che non sia desumibile dalla normale dissezione della mano. Un orrore inutile nella ricerca dell’inedito a tutti i costi.

Veniamo ora alla sezione più importante dell’opera: il sistema nervoso e, in particolare, le immagini del sistema nervoso centrale che Doyen cerca di riprodurre come “istantanee in situ” e che Lanska dice “sono fatte per il teatro degli orrori” e, senza alcun dubbio, afferma che non sono dirette a medici e studenti ma a un pubblico da impressionare, perché non sono utili nella discriminazione morfologica delle parti, non possono essere impiegate per chiarire la descrizione anatomica dei testi e rappresentano solo in modo cruento e raccapricciante le superfici di taglio del cranio di esseri umani.

Rimane l’effetto di “vero”, ossia di estremo realismo fotografico delle immagini nel loro insieme, che sembra essere stato lo scopo principale di Doyen, ottenuto attraverso la collotipia. È opportuno spendere due parole per illustrare questa tecnica, che oggi è conosciuta da pochi.

L’eliotipia o collotipia è una tecnica di stampa calcografica che richiede il trasporto di un disegno o di un testo su uno strato di gelatina di spessore variabile, applicato su una lastra di rame; usando speciali mordenti che attaccano la gelatina, l’originale si imprime sulla superficie del rame che diventa una matrice per la stampa. Il procedimento fotomeccanico di riproduzione del disegno si basa sulle proprietà dei clichés di gelatina bicromata indurita che ha la facoltà di assorbire inchiostri grassi se esposta alla luce e, per questo, oltre che collotipia è anche detto fototipia o eliotipia. A proposito del modo in cui è stata impiegata da Doyen questa tecnica, si può dire che ha garantito la maggiore uniformità possibile con il tono monocromatico della fotografia in bianco e nero.

Le vere sezioni dei cadaveri, da cui erano ricavate le impressioni fototipiche dell’atlante, venivano mostrate da Doyen come “campioni preparati” mediante i filmati che proiettava alle sue conferenze.

La fotografia e la riproduzione fotomeccanica facilitarono la realizzazione dell’atlante in un tempo sorprendentemente più breve di quello consueto per quel genere di opere, basate fino allora sul disegno. Tuttavia, quella procedura comportava la perdita di una grande quantità di dettagli fini e conformazioni minute che, in molti casi, costituiscono tratti distintivi e salienti dei particolari distretti anatomici. Doyen aveva elaborato nuove tecniche di fissazione in grado di preservare i colori naturali dei tessuti, ma questo fu un lavoro sprecato, perché la resa monocromatica dell’opera a stampa aveva conservato solo la gamma tonale, perdendo irrimediabilmente le tinte.

Questi ultimi aspetti collocano l’opera in una dimensione del tutto opposta a quella delle tavole anatomiche di Paolo Mascagni, in cui i dettagli fini e la colorazione manuale accurata delle migliaia di particolari integrano perfettamente i testi dell’anatomia descrittiva, permettendo il riconoscimento e la cognizione spaziale anche delle formazioni anatomiche più minute. Doyen intende superare la schematica didattica dei disegni classici, ma le sue riproduzioni si rivelano inadeguate a rendere in modo leggibile la morfologia essenziale.

Nel suo studio, Douglas J. Lanska paragona l’atlante del chirurgo francese ad altri atlanti anatomici della fine del diciannovesimo secolo, che includono sezioni seriali del sistema nervoso centrale, sia studiate da un corpo intero, sia come sezioni encefaliche di una testa isolata, sia quali piani di taglio di un cervello estratto dalla scatola cranica. Il paragone in termini scientifici è impietoso: dalle immagini realisticamente inquietanti ottenute con la motosega e la procedura fotomeccanica non si ricava che una piccola parte delle informazioni morfologiche fornite dalle opere classiche.

Lanska conclude che l’intensa attività di Doyen, soprattutto nello sforzo di rappresentare l’anatomia topografica del sistema nervoso, produsse un risultato veramente modesto, oltre a generare conseguenze che andarono a danno dei pazienti, dei colleghi, della professione medica e della sua reputazione personale.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi & Giuseppe Perrella

BM&L-07 maggio 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 



[1] La professione medica è stata la prima professione liberale, e a lungo la sola, ad avere il livello universitario di formazione: l’università nasce per la medicina.

[2] Uno degli scopi principali del decreto del 1299, come si legge in Harry Bober e Loren Mc Kinney, era la proibizione della bollitura dei cadaveri come mezzo per separare le ossa dai tessuti molli; una pratica adottata per rispedire in patria le ossa dei Crociati morti in Terra Santa.

[3] Harry Bober e Loren C. McKinney, La prima autopsia.  KOS anno I, N. 2, p. 52, marzo 1984.

[4] Note e Notizie 28-10-17 Il Cervello da Nemesio al Seicento – seconda parte.

[5] Uso riemerso con la cremazione, che si sta diffondendo parallelamente alla progressiva perdita di sensibilità cristiana. Non solo accanirsi distruggendo con l’incenerimento la struttura organica del corpo di un defunto fino a ridurla ai costituenti inorganici elementari (C, H, O, N e S) tradisce tutto l’insegnamento di Cristo sul corpo “tempio dello spirito” destinato alla resurrezione, ma si pone in conflitto con duemila anni di “cristiana sepoltura” in terra consacrata, in prosieguo con la già plurimillenaria tradizione ebraica. I tentativi di compromesso di CEI e Vaticano del 2016 sotto la spinta degli interessi di una lobby non possono che intristire profondamente i credenti. La cremazione non è compatibile con la fede cristiana: chi dice cose diverse o non ha riflettuto abbastanza o ha riflettuto male, oppure è in malafede.

[6] A lungo quella di Mondino de’ Liuzzi (1275-1326) è stata considerata la prima autopsia medievale, poi Harry Bober e altri studiosi hanno trovato documentazioni su tante altre dissezioni. Nato a Bologna da famiglia di medici e speziali toscani, Mondino fu allievo del fiorentino Taddeo Alderotti e si laureò a Bologna; la sua pratica settoria fu la prima documentata e pubblicata in ambito universitario, imitata a Montpellier e poi in altre università. Guy de Chauliac nel suo trattato Chirurgia Magna cita Mondino de’ Liuzzi come “Maestro di Anatomia”.

[7] Giuseppe Perrella, Specchio della psiche e della civiltàTredicesima Parte, § 26. Perché da Erofilo al Rinascimento si è scoperto così poco sul cervello. (si accede dalla pagina di copertina del sito).

[8] Paolo Mascagni, Anatomia Universa, XLIV tabulis aeneis juxta archetypum hominis sdulti accuratissime rappresentata, N. Capurro, Pisa 1823.

[9] Paolo Mascagni, Anatomia Universa, op. cit., Proemium, p. V (la traduzione la latino è di Roberto Paolo Ciardi).

[10] Roberto Paolo Ciardi, “Fra Pelle e Ossa”, KOS anno I, N. 2, p. 98, marzo 1984.

[11] Roberto Paolo Ciardi, op. cit., p. 98.

[12] L’Anatomiae universae iconae (1823) è attualmente conservata nel Museo di Anatomia Umana dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.

[13] Michel Rouche, L’Alto Medioevo occidentale, p. 343, in La vita privata dall’Impero Romano all’anno Mille, a cura di Philippe Aries e Georges Duby, Edizione CDE (licenza Laterza), Milano 1987.

[14] La legge germanica, tra l’altro, considerava il furto più grave dell’assassinio.

[15] Cfr. Michel Rouche, op. cit., p. 404.

[16] Cfr. Michel Rouche, op. cit., p. 343.

[17] L’idea è in genere attribuita a Edouard René de Laboulaye, politico attivista della liberazione degli schiavi, che la fece sua, con l’approvazione del console americano John Bigelow, e ottenne il consenso politico per la decisione del governo francese di donare un’opera simbolo di pace. Laboulaye tenne a Versailles una conferenza, alla quale invitò Bartholdi ed Eiffel, per annunciare il progetto, coordinato dall’architetto Eugene Viollet le Duc. Laboulaye morì molto prima che l’opera fosse compiuta. Anche Viollet le Duc, che doveva occuparsi dell’ancoraggio della statua a un monumentale piedistallo in mattoni, morì inaspettatamente, allora gli subentrò Eiffel che preferì colonne e travi ai mattoni. Il titolo originale e completo dell’opera era La Liberté éclairant le monde (Liberty Enlightening the World).

[18] Precisamente collocata su un isolotto roccioso, detto Liberty Island, all’ingresso del porto del fiume Hudson.

[19] Anche detto il Colosso di San Carlo Borromeo o il Sancarlone, è ancora la principale attrazione della cittadina di Arona, in provincia di Novara.

[20] Nelle biografie francesi, inglesi e italiane che abbiamo consultato non si menziona l’argomento della tesi di laurea, né si riporta il conseguimento della laurea con una data.

[21] Un rigoroso e impietoso resoconto dell’intervento si trova in Jill A. Sullivan, Popular Exhibitions, Science and Showmanship, 1840-1910, Routledge 2015.

[22] Il kinetoscopio fu poi sviluppato con l’aiuto dell’operatore di Edison, William Dickson, tra il 1889 e il 1892 come un’invenzione diversa dal semplice proiettore, ossia una macchina che consentiva la visione monoculare di un film che girava su dei rocchetti. Edison inaugurò il 14 aprile 1894 l’uso del kinetoscopio in una sala dove il pubblico era accorso per ascoltare la musica dal suo fonografo a tromba: durante l’ascolto gli spettatori a turno potevano anche guardare attraverso l’oculare della nuova macchina lo scorrere di una pellicola. Il primo kinetoscopio portatile non era elettrico ma meccanico e assomigliava un po’ al “Mondo Nuovo” (un antico proiettore di immagini statiche di cui parla anche Goldoni) ma già concepito come una macchina a gettoni: si inseriva una moneta per sbloccare un complesso congegno a manovella necessario per caricare la pellicola che poi scorreva automaticamente alla giusta velocità di visione.

[23] Cinematografo fu infatti il nome dato alla macchina, mentre l’arte di riprendere immagini della realtà per i fratelli Lumiere doveva chiamarsi Domitor, contrazione di “Dominator”, in riferimento al potere dominante di conservare cose e persone oltre la morte, quale parziale realizzazione di un sogno dell’ideologia positivista dei due inventori.

[24] In quell’anno Jules Verne, l’antesignano di tutti gli scrittori di fantascienza, pubblicò il romanzo Il Castello dei Carpazi, in cui narra di un inventore che si era innamorato di una cantante e, per averla sempre con sé, inventa un registratore di immagini e voce. Doyen legge quel libro, dove trova l’invenzione del cinema con tre anni di anticipo.

[25] L’invenzione fu commercializzata dal 1907. Il marchio “Lumiere” per la fotografia a colori ha resistito a lungo, fino a quando non è stato acquistato e inglobato dalla britannica ILFORD.

[26] Dall’Abstract dell’articolo citato.

[27] Mai, Assahuer e Paxinos, Atlas of Human Brain, p. 1, Elsevier Academic Press, 2004.

[28] Si tenga conto che, a differenza dell’anatomia descrittiva che ha come oggetto principale gli organi, l’anatomia topografica ha come oggetto specifico le regioni e i distretti corporei, dei quali studia i limiti e le parti degli organi che li costituiscono, nei loro rapporti topografici. Proprio lo studio di questi rapporti poteva giustificare, secondo Doyen, i piani di sezione effettuati con la motosega.

[29] Articoli ripresi da cronache del New York Times.